Le terra d’Israele ha rappresentato un riferimento costante nella religione e nella cultura ebraica. Nella ricorrenza dell’uscita dell’Egitto e della liberazione dalla schiavitù faraonica ogni anno viene ripetuta la formula di speranza: l’anno prossimo a Gerusalemme. Questa speranza di carattere non solo religioso, diventa obiettivo politico e nazionale con la nascita del sionismo, negli ultimi decenni del secolo XIX e si rafforza nella visione del fondatore del sionismo moderno, il giornalista viennese Teodoro Herzl. Decisiva sarà la dichiarazione del governo britannico, attraverso il suo rappresentante Lord Balfour nel 1917 di prendere in considerazione la formazione di un focolare ebraico in Palestina. Movimenti migratori verso la Palestina sono già precedenti, come pure la presenza ebraica è stata costante anche se fortemente minoritaria. Ma non si può parlare di ebrei tout-court, gli ebrei sono stati ebrei-spagnoli, ebrei-tedeschi, ebrei-praghesi, ebrei-orientali ecc. Ciascun gruppo con un bagaglio culturale e linguistico diverso in cui si riconosceva profondamente fino alla creazione di nuove lingue come il giudeo-spagnolo o lo yiddish, ebraico tedesco. I motivi della migrazione verso la Palestina e l’ampiezza dei movimenti migratori hanno avuto diverse radici. Gerusalemme rappresentava per tutti un miraggio messianico, per alcuni compimento di un ritorno religioso al Tempio o a quello che ne restava, il muro occidentale, per altri realizzazione nazionale, per molti speranza di riscatto e con il sionismo moderno speranza di costruire un nuovo tipo di ebreo, non più oggetto passivo a cui non restava che la scelta della migrazione continua per sfuggire alla persecuzione, ma creatore responsabile di un proprio avvenire. Gerusalemme, quindi come sogno, mito, promessa messianica, redenzione, liberazione. La strada verso Gerusalemme è vista come ascesa (alyah= salita, come ancora viene chiamata ogni nuova immigrazione di un ebreo verso lo stato di Israele). Ma l’ascesa ha connotati diversi, sia per le ragioni delle ondate migratorie che per i motivi individuali che portano alla scelta. L’asse Berlino-Gerusalemme non è forse il principale dal punto di vista quantitativo, ma culturalmente importante. Diventerà un topos, sarà il titolo dell’autobiografia di Gershon Sholem, più tardi sarà il titolo di un film del regista israeliano Amos Gitai dedicato alla poetessa tedesca Else Lasker-Schüller. Ma i sogni di una rinascita nazionale finiscono per scontrarsi con una realtà non prevista. I personaggi di cui Sonino riporta la biografia intellettuale lo testimoniano. Sono riportate le tensioni individuali, il significato diverso che aveva portato ad aderire a una visione sionista (il ritorno a Sion, la creazione di un focolare ebraico in Palestina come soluzione della questione ebraica) la scelta dell’emigrazione da un paese alla cui cultura gli ebrei erano profondamente assimilati. Ciascuno dei personaggi, tutti importanti intellettuali, da Sholem alla Lasker-Schüller, da Arnold Zweig a Hugo Bergmann, da Gabriele Tergit a Paul Müsham, avrà un suo peculiare sviluppo e vivrà una propria delusione di fronte alla realtà che trovò davanti ai suoi occhi. Motivo comune, la difficoltà di abbandonare la propria lingua (il tedesco) per imparare l’ebraico, lingua in formazione non più solo religiosa. Altro motivo comune, la costatazione della disomogeneità delle visioni sioniste. La presenza di un sionismo politico che deve affrontare la presenza mandataria della Gran Bretagna, ma anche la presenza di popolazioni arabe che col tempo si opporranno alla crescita dell’immigrazione ebraica. Anche “i sionismi” sono diversi. Vi è un sionismo puramente culturale (la rinascita di un centro culturale e ideale ebraico) ma anche uno politico che si pone l’obiettivo di un’autonomia amministrativa, o perfino di un’indipendenza statale. Vi è un sionismo che ricerca la convivenza con gli arabi (una terra per due popoli) e vi è chi organizza una lotta armata contro gli inglesi e cerca lo scontro con gli arabi pensando a una patria ebraica. Vi è chi vede rifiorire un ideale religioso e chi vede nascere l’ebreo nuovo, manovale, contadino. La realtà è sconcertante, inattesa, contrastante con il sogno, esige posizioni politiche, pratiche, modificazioni dello stile di vita, l’acquisizione di una nuova lingua e anche di nuovi linguaggi a cui un intellettuale fatica ad adeguarsi. Qualcuno non saprà risolvere le contraddizioni e rinuncerà come Zweig, come più volte la Lasker-Schüller nei sui andirivieni con l’Europa. Certo per gli ebrei tedeschi il ritorno era precluso dall’ascesa del nazismo, ma cercarono altri confini, come gli Stati Uniti, la Svizzera. Molti andarono in Nordamerica. Claudia Sonino sceglie di parlare di alcuni che vollero la Palestina non per tracciare una storia di flusso migratorio, di spostamento demografico, ma per ripercorrere biografie intellettuali e rintracciare attraverso le opere, le corrispondenze, le autobiografie le storie di sei intellettuali che alla fine rappresentano solo se stessi, forza e limite (voluto) del libro. Indagini sociologiche potrebbero solo dire superficialmente cosa muoveva “gli ebrei tedeschi”, meglio chiedersi cosa significò la Palestina (perché di Palestina si parla, le vicende vengono seguite fino alle soglie della dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele, nel 1948), per alcuni di loro, cosa essa fosse nella visione intellettuale di un proprio individuale ebraismo, spesso non religioso o anche manifestamente ateo. Quindi un percorso all’interno di sei diverse vicende, sei diversi modi di intendere la propria identità ebraica e la propria appartenenza inscindibile alla cultura e alla lingua tedesca che nessuno mai abbandonerà. I percorsi identitari sono individuali, risentono del contesto, ma appartengono alla persona, aspetti sottolineati bene dall’autrice. Ciascuno coltivava un proprio sogno, ciascuno dovette scontrarsi con aspetti della realtà a cui personalmente non sapeva adattarsi. Vicende parallele e comparate. La delusione li portò a vivere una vicenda in negativo. La Palestina non era la terra che si aspettavano, il sionismo politico non era quello che li aveva mossi, il nuovo ebraico non era la loro lingua. Restarono ebrei tedeschi e forse più tedeschi che ebrei. Sarebbe interessante conoscere il seguito, capire quali siano state le trasformazioni, per chi le visse (Zweig se ne andò, la Lasker-Schüller morì), che ebbero luogo con la nascita dello Stato, con le guerre con i paesi arabi, con la biculturalità o multiculturalità del nuovo paese che si preparava a diventare crogiolo di ebrei provenienti da mondi diversi, magari non per scelta, ma per necessità dovendo rifugiarvisi a causa di nuove persecuzioni.
Nell’immensa letteratura sulla storia delle migrazioni ebraiche, dei diversi modi di intendere quella verso la Palestina, non si tratta di un libro in più, ma di un tentativo di comprensione profonda, certamente importante e raffinato.
Davide Assael
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