Filosofia della religione
L’esperienza del male. Negazione o conoscenza di Dio?
Progetto di ricerca coordinato da Sofia Vescovelli*
Descrizione
La presenza del male è da sempre il grande problema religioso per eccellenza, non solo per le religioni stesse, ma anche per qualunque riflessione filosofica che voglia chiamarsi tale. La sofferenza, il dolore, la morte sono realtà con le quali ci confrontiamo quotidianamente e sulle quali non si può fare a meno di riflettere. Ciò che fa problema è lo scandalo che il male porta con sé: lo scandalo della ragione nei confronti del non senso, del male ingiustamente patito e, soprattutto, ingiustificabile.
Non si tratta semplicemente dei singoli mali che l’uomo si trova a dover patire, ma della consapevolezza del male ontologico del mondo, inestirpabile dalla buona volontà umana e inspiegabile dalla ragione. Il nucleo del problema è essenzialmente etico-soterico: da una parte l’etica come possibilità di riscatto, di lotta contro il male; dall’altra la ricerca della redenzione e della salvezza, non solo per sé ma per tutti, di fronte all’assurdità del male.
L’esperienza del male diviene la motivazione fondamentale per negare l’esistenza di Dio, annidandosi nel nodo cruciale di ogni teodicea: come può un Dio buono, saggio e onnipotente permettere tutta questa sofferenza? Unde malum? E soprattutto Cur malum? Sono questi gli interrogativi religiosi e filosofici che lacerano l’uomo.
Ma questa prospettiva può venire ribaltata, il male può diventare una possibilità di conoscere Dio, di affermare la sua esistenza, addirittura di “incontrare” il divino nelle profondità della sofferenza più atroce. Si tratta di non considerare più il male come negazione, bensì come testimonianza di Dio.
Nel corso della storia della filosofia e della teologia la questione del male è stato ampiamente trattata e dibattuta; il progetto non intende proporre una rielaborazione storica, piuttosto vuole delineare alcuni percorsi tematici che hanno caratterizzato la filosofia del ‘900 e che tuttora sono fonte di dibattito, ma che in Italia sono rimasti perlopiù ignorati. L’idea è quella di far incontrare la filosofia italiana con il pensiero anglo-americano, allo scopo di trarne feconde suggestioni e riflessioni.
La filosofia di Alberto Caracciolo rappresenta lo sfondo concettuale da cui partire. In particolare verrà considerata la sua nozione di natura umana, concepita come ontologicamente relata al divino. Se si concepisce l’uomo come un essere strutturalmente aperto alla Trascendenza, l’esperienza del male acquisisce un significato diverso rispetto a quello di mera negazione o dissoluzione del momento religioso. Infatti è proprio grazie a tale apertura che l'uomo riesce ad esperire il male radicale: egli possiede la consapevolezza del male - che non è semplicemente il male morale, ma il male irredimibile dalla buona volontà umana - poiché si trova posto nell'orizzonte della Trascendenza. Emerge qui la distinzione tra malum mundi e mala in mundo: l'uomo non soffre meramente i singoli mali, ma soffre della miseria assoluta del mondo in tutta la sua estrema negatività, percepisce il carattere radicale, strutturale del male. Proprio questa esperienza attesta la sua capacità di aprirsi all’Ulteriorità, diviene testimonianza della presenza in lui dello “spazio di Dio”; solo una tale apertura costitutiva, a priori, può essere posta a fondamento della possibilità di cogliere, nella concretezza dei singoli mali nel mondo, il male ontologico nella sua irriducibilità.
Siamo davanti ad una sorta di teodicea “inversa”, nella quale non è più necessario giustificare Dio davanti al male, bensì è quest'ultimo a fornire la conferma della sua esistenza. Il mondo con la sua strutturale sofferenza è così esperito perché quel misero essere che è l'uomo, nonostante tutta la sua finitezza, è in grado di porsi nello spazio della Trascendenza e da qui percepire il male che investe la realtà.
È dall'esperienza del male radicale che nasce l'atto religioso: davanti all'irredimibilità del malum mundi sorge l'invocazione di salvezza, rivolta verso e dentro lo spazio della Trascendenza, che può anche essere esperito come vuoto. Di fronte al mistero del male si erge la domanda-invocazione, che è richiesta di senso e di valore. A tale proposito, va ricordato un punto chiave nella riflessione caraccioliana: il problema della sofferenza fenomenicamente inutile. Davanti ai dolori patiti dal fanciullo innocente, dall’animale, dall’idiota, come trovare una giustificazione? È al cospetto di coloro che possono solo subire passivamente il male, come una totale imposizione, che emerge tutta la negativitàdel mondo, l’assurdità del male.
La sofferenza ingiustamente subita può divenire sofferenza agita, adesione consapevole che si tramuta in sacrificio volontario di sé ad un piano divino: chi soffre può scegliere di seguire il modello di Cristo crocifisso, può scegliere di donare se stesso e la propria sofferenza ad un disegno di Dio. Siamo di fronte ad un dolore che non viene solo patito passivamente, ma accettato attivamente, perché è sì frutto innanzitutto di un’ingiustizia subita, eppure può divenire anche scelta pensata, volontaria offerta di sé. Nel caso di gravi mancanze mentali –come l’idiota –questo non può avvenire, non c’è coscienza, non c’è scelta, c’è solo il pati e non l’agere.
Il problema è il senso della sofferenza, non semplicemente l’esistenza della sofferenza in sé; in quest’ottica va intesa l’espressione “fenomenicamente inutile”: inutile perché assurda, priva di senso, sofferenza esclusivamente subita e non agita, incapace di far sorgere alcunché di positivo, sofferenza senza coscienza. È qui che emerge, in tutta la sua incomprensibilità, il mistero del male, al quale non dobbiamo abbandonarci passivamente, bensì raccogliere la chiamata della Trascendenza, mantenere aperto lo spazio di Dio come spazio del Bene e del Senso.
Date queste premesse iniziali, il mio progetto intende sviluppare alcuni percorsi tematici differenti, sebbene essi risultino inanellati nel circolo di una stessa prospettiva, la quale ammette la possibilità di conoscere Dio a partire dall’esperienza del male, proprio in quanto fonte rivelativa di una natura umana strutturalmente aperta alla Trascendenza.
I percorsi che intendo delineare sono tre e coprono tre approcci diversi alla teodicea:
- la teodicea ireniana, che ha come esponente maggiore il filosofo John Hick;
- la teodicea processuale, che detiene tra i suoi sostenitori personalità quali Charles Hartshorne, David R. Griffin e John Cobb Jr.;
- la filosofia di Alberto Caracciolo, che intendo usare come sfondo teoretico-critico della mia riflessione.
Le prime due linee di pensiero rappresentano l’apporto che il mondo anglo-americano può fornire al problema del male, contributo che in Italia è quasi del tutto ignorato. Esse si presentano come due prospettive diverse che, partendo da una riflessione sul problema del male e sulla natura del mondo e dell’uomo, giungono a sviluppare concetti di Dio e ipotesi sulla sua conoscibilità molto differenti.
La teodicea ireniana sviluppa alcune riflessioni di Ireneo, apologista greco del II secolo, il quale sostiene che l’uomo, in questo mondo, deve affrontare un processo di graduale progressione verso la perfezione spirituale e morale, comprendente il male come ostacolo cui confrontarsi. Secondo Ireneo Dio ha creato gli uomini non come esseri perfetti, bensì come esseri immaturi, dotati di libertà e di una natura etica; esseri fatti ad “immagine”di Dio (imago dei), non a “somiglianza”di Dio (similitudo dei). Lo scopo dell’esistenza umana è la crescita morale e spirituale per divenire creature perfette, capaci di instaurare una relazione personale e libera con il divino. Seguendo Ireneo, Hick concepisce i mali nel mondo come strumenti che rendono possibile il nostro sviluppo spirituale; la sua teodicea è una teodicea della “formazione dell’anima”–soul-making theodicy –perché considera gli uomini creature finite ed imperfette, che possono crescere moralmente e spiritualmente tramite il confronto con sofferenze e difficoltà.
Nella teodicea della formazione dell’anima il male è la condizione di possibilità per la crescita personale e l’azione pratica, non è più semplicemente un elemento compatibile con il piano creativo divino, ma ne diviene un aspetto essenziale, senza il quale l’avvio di un percorso di crescita sarebbe impossibile. Infatti un mondo perfetto senza asprezze e difficoltà, un “paradiso” ideale, non ci permetterebbe di formarci come persone libere e responsabili; l’esercizio di virtù morali e spirituali richiede avversità da superare, senza le quali non si potrebbero accrescere né spiritualità né moralità. D’altra parte, se Dio intervenisse ogni volta che un uomo commette un azione buona o cattiva, cadremmo in un “meccanicismo” morale, dove ad ogni atto malvagio corrisponderebbe una punizione divina e ad ogni azione meritevole un premio, cosìche la libertà umana sarebbe distrutta.
Allo stesso modo, se non vi fossero calamità naturali e mali naturali (come la malattia), non potremmo superarli con l’esercizio della carità e dell’altruismo, rimanendo incapaci di sviluppare la nostra personalità.
La seconda linea di pensiero è quella che si definisce come “processuale” in quanto segue i principi della filosofia –detta appunto processuale –di A. N. Whitehead. In realtà essa non si limita a riprendere i motivi cardine della filosofia del processo, bensì li rielabora, proponendoli all’interno della sfera teologica e religiosa, con particolare attenzione al cristianesimo.
Secondo la teologia processuale l’universo è una grande società che ha come membro dominante Dio, il cui potere non è di tipo coercitivo, bensì persuasivo. Dio non determina unilateralmente nessuno stato di cose, ma si limita a coordinare, mantenere e stimolare l’ordine universale, organizzando gli esseri e le loro libere attività all’interno di una singola società complessa, ovvero il cosmo. La teologia processuale ammette l’esistenza di alcuni principi metafisici necessari, tra cui spicca il principio per cui nel mondo ogni ente attuale (dalla molecola all’uomo) possiede il duplice potere di auto-determinarsi e di influenzare altri enti. Non è Dio a donare tale potere alle creature, bensì esso viene presupposto come condizione logica-metafisica per l’esistenza di qualunque ente attuale; per esistere qualunque ente del mondo deve possedere la capacità intrinseca di auto-determinarsi. Ne consegue che la divinità processuale deve adeguarsi a suddetto principio: come Dio non può fare cerchi quadrati, perché logicamente impossibile, allo stesso modo non può esercitare potere coercitivo su nessuna creatura.
Dio non crea dal nulla, ma porta ordine a partire dal caos originario; lo scopo divino è quello di dirigere il mondo da uno stato caotico primigenio verso forme sempre più complesse di bellezza, intesa come unione di armonia e intensità. La nozione di bellezza racchiude in sé il principio fondamentale per cui ogni creatura, conformemente alle proprie capacità e al contesto in cui si trova, deve ricercare il massimo equilibrio possibile (armonia) tra forme di esperienza sempre più complesse, nuove e varie (intensità); più le esperienze godute dalle creature e le loro interrelazioni sono varie, complesse e armoniose, più si ha un alto livello di bellezza. Dio, perciò, cerca di evitare nel mondo sia la presenza della monotonia, di esperienze simili sempre ripetute, sia della superficialità, concepita come il godimento di esperienze inferiori rispetto alle capacità più ampie possedute dalla singola creatura, che potrebbe godere di tipologie di esperienza molto più intense e strutturate.
Per garantire la bellezza nell’universo Dio ha spinto la situazione di caos originario verso forme di attualità sempre nuove e diverse, fino a giungere al mondo come attualmente lo conosciamo. L’azione di Dio non è mai coercitiva, Egli non utilizza gli enti come meri fantocci o strumenti con cui costruire un cosmo armonico e ordinato, bensì la sua è un’opera di persuasione. Dio è massimamente rispettoso della libertà di ogni essere, egli non può infrangere la capacità di autodeterminarsi propria di ogni ente; perciò si limita a spingere, a stimolare ogni creatura verso quelle possibilità di attualizzazione migliori per essa in quel dato contesto. In altre parole Dio fornisce ogni essere di uno scopo ideale o iniziale, un impulso a realizzare l’opportunità migliore tra le sue realizzazioni possibili nella situazione concreta in cui si trova ad esistere, lasciando tutta la libertà alla creatura di definirsi come meglio crede; essa può darsi uno scopo soggettivo che coincide con quello iniziale oppure che diverge completamente.
Questa nozione di universo è caratterizzata dal dinamismo e dalla socialità, tratti ereditati dalla filosofia di Whitehead: il cosmo si presenta sempre in fieri, in perenne movimento verso forme di esperienza e di esistenza sempre più nuove e complesse; inoltre esso viene considerato come un’immensa società, in cui ogni membro è strettamente interrelato all’altro e dove Dio è visto come il socius supremo. Si tratta di un tipo di prospettiva panenteista, perché Dio viene considerato non come una realtà del tutto estranea e lontana rispetto al mondo, ma come ciò che lo sostiene e lo sospinge, pur rimanendo ulteriore. Il Dio processuale è un Dio che ama il mondo, che partecipa delle gioie e dei dolori del cosmo, è un Dio che patisce e gioisce con noi, è un Dio simpatetico.
Date queste premesse, la teologia del processo considera la possibilità del male come elemento necessario all’esistenza di un universo “sociale”, organizzato secondo i principi della bellezza e della libertà. Ad essere necessari non sono i mali concreti che si verificano nel mondo: essi rimangono assolutamente contingenti; invece è la possibilità della presenza in generale del male che è necessaria in un universo così concepito. Infatti, se esiste una molteplicità di creature libere in interazione reciproca, che Dio non può determinare unilateralmente né costringere, è inevitabile che queste possano entrare in conflitto, portando nel mondo la discordia e la disarmonia. La stessa possibilità del più grande bene, inteso dai teologi processuali come l’opportunità di godere di esperienze sempre più complesse, nuove e armoniose, richiede la possibilità di esperire anche i più atroci dolori; Dio potrebbe ridurre la nostra sensibilità alla sofferenza –per esempio fermando la natura a stadi evolutivi inferiori, evitando che emergano creature con un sistema nervoso e psichico come quello umano - ma così facendo ridurrebbe anche la possibilità di godere di alte forme di esperienza, come quella morale, estetica, religiosa. Compito di Dio è quello di cercare di sospingere il cosmo verso quelle forme più alte di cooperazione ed interazione armonica, ma la realizzazione di tali possibilità dipende dalla libertà della creatura e dalla sua volontà di rispondere all’invito divino.
È interessante sottolineare come questo approccio filosofico, nonostante sia ben poco seguito in Italia, presenti numerose affinità con il pensiero di Vito Mancuso. Nella sua opera Il Principio Passione[1]il noto teologo sviluppa un teologia naturale per molti aspetti vicina a quella processuale, soprattutto per l’idea di un Dio che plasma da un caos originario (anche se Mancuso ammette il principio della creatio ex nihilo, mentre i filosofi del processo la negano). Un approfondimento sulle divergenze e affinitàtra le due posizioni merita di essere opportunamente sviluppato, soprattutto per fornire un punto di riflessione su come viene interpretata la filosofia processuale in ambito italiano.
Il mio progetto intende vagliare criticamente la teodicea ireniana e la teodicea processuale, operando sia una valutazione circa la loro coerenza interna, sia un confronto filosofico tra le due, mantenendo come pietra di paragone la filosofia di Alberto Caracciolo. Gli ambiti oggetto di analisi ricoprono diverse dimensioni filosofiche e religiose:
- il concetto di Dio (in cosa e come il Dio della teologia processuale diverge da quello più “tradizionale” della teodicea ireniana? Quale percorso attuano per arrivare a conoscere Dio a partire dalla natura umana e del mondo?);
- il problema antropologico (come viene concepito l’uomo e la sua relazione con il divino nelle due posizioni?);
- il tema della libertà (che tipo di nozione di libertà umana e divina presentano queste filosofie?);
- il male (come viene considerato il problema del male nelle due prospettive? Che tipo di strategie attuano per risolvere il dilemma?);
- soteriologia ed escatologia (che tipo di visione soteriologica propongono suddette linee di pensiero? Quale concetto di salvezza utilizzano?).
Lo scopo è quello di introdurre questi approcci e di valutarne i limiti e le possibilità, fornendo un punto di vista dal quale ripensare il problema del male, non più solo nel suo lato “distruttivo”, bensì costruttivo, come momento di conoscenza e relazione con Dio, finalizzato a sostenere una risposta filosofica e pratica al problema.
Non si tratta semplicemente dei singoli mali che l’uomo si trova a dover patire, ma della consapevolezza del male ontologico del mondo, inestirpabile dalla buona volontà umana e inspiegabile dalla ragione. Il nucleo del problema è essenzialmente etico-soterico: da una parte l’etica come possibilità di riscatto, di lotta contro il male; dall’altra la ricerca della redenzione e della salvezza, non solo per sé ma per tutti, di fronte all’assurdità del male.
L’esperienza del male diviene la motivazione fondamentale per negare l’esistenza di Dio, annidandosi nel nodo cruciale di ogni teodicea: come può un Dio buono, saggio e onnipotente permettere tutta questa sofferenza? Unde malum? E soprattutto Cur malum? Sono questi gli interrogativi religiosi e filosofici che lacerano l’uomo.
Ma questa prospettiva può venire ribaltata, il male può diventare una possibilità di conoscere Dio, di affermare la sua esistenza, addirittura di “incontrare” il divino nelle profondità della sofferenza più atroce. Si tratta di non considerare più il male come negazione, bensì come testimonianza di Dio.
Nel corso della storia della filosofia e della teologia la questione del male è stato ampiamente trattata e dibattuta; il progetto non intende proporre una rielaborazione storica, piuttosto vuole delineare alcuni percorsi tematici che hanno caratterizzato la filosofia del ‘900 e che tuttora sono fonte di dibattito, ma che in Italia sono rimasti perlopiù ignorati. L’idea è quella di far incontrare la filosofia italiana con il pensiero anglo-americano, allo scopo di trarne feconde suggestioni e riflessioni.
La filosofia di Alberto Caracciolo rappresenta lo sfondo concettuale da cui partire. In particolare verrà considerata la sua nozione di natura umana, concepita come ontologicamente relata al divino. Se si concepisce l’uomo come un essere strutturalmente aperto alla Trascendenza, l’esperienza del male acquisisce un significato diverso rispetto a quello di mera negazione o dissoluzione del momento religioso. Infatti è proprio grazie a tale apertura che l'uomo riesce ad esperire il male radicale: egli possiede la consapevolezza del male - che non è semplicemente il male morale, ma il male irredimibile dalla buona volontà umana - poiché si trova posto nell'orizzonte della Trascendenza. Emerge qui la distinzione tra malum mundi e mala in mundo: l'uomo non soffre meramente i singoli mali, ma soffre della miseria assoluta del mondo in tutta la sua estrema negatività, percepisce il carattere radicale, strutturale del male. Proprio questa esperienza attesta la sua capacità di aprirsi all’Ulteriorità, diviene testimonianza della presenza in lui dello “spazio di Dio”; solo una tale apertura costitutiva, a priori, può essere posta a fondamento della possibilità di cogliere, nella concretezza dei singoli mali nel mondo, il male ontologico nella sua irriducibilità.
Siamo davanti ad una sorta di teodicea “inversa”, nella quale non è più necessario giustificare Dio davanti al male, bensì è quest'ultimo a fornire la conferma della sua esistenza. Il mondo con la sua strutturale sofferenza è così esperito perché quel misero essere che è l'uomo, nonostante tutta la sua finitezza, è in grado di porsi nello spazio della Trascendenza e da qui percepire il male che investe la realtà.
È dall'esperienza del male radicale che nasce l'atto religioso: davanti all'irredimibilità del malum mundi sorge l'invocazione di salvezza, rivolta verso e dentro lo spazio della Trascendenza, che può anche essere esperito come vuoto. Di fronte al mistero del male si erge la domanda-invocazione, che è richiesta di senso e di valore. A tale proposito, va ricordato un punto chiave nella riflessione caraccioliana: il problema della sofferenza fenomenicamente inutile. Davanti ai dolori patiti dal fanciullo innocente, dall’animale, dall’idiota, come trovare una giustificazione? È al cospetto di coloro che possono solo subire passivamente il male, come una totale imposizione, che emerge tutta la negativitàdel mondo, l’assurdità del male.
La sofferenza ingiustamente subita può divenire sofferenza agita, adesione consapevole che si tramuta in sacrificio volontario di sé ad un piano divino: chi soffre può scegliere di seguire il modello di Cristo crocifisso, può scegliere di donare se stesso e la propria sofferenza ad un disegno di Dio. Siamo di fronte ad un dolore che non viene solo patito passivamente, ma accettato attivamente, perché è sì frutto innanzitutto di un’ingiustizia subita, eppure può divenire anche scelta pensata, volontaria offerta di sé. Nel caso di gravi mancanze mentali –come l’idiota –questo non può avvenire, non c’è coscienza, non c’è scelta, c’è solo il pati e non l’agere.
Il problema è il senso della sofferenza, non semplicemente l’esistenza della sofferenza in sé; in quest’ottica va intesa l’espressione “fenomenicamente inutile”: inutile perché assurda, priva di senso, sofferenza esclusivamente subita e non agita, incapace di far sorgere alcunché di positivo, sofferenza senza coscienza. È qui che emerge, in tutta la sua incomprensibilità, il mistero del male, al quale non dobbiamo abbandonarci passivamente, bensì raccogliere la chiamata della Trascendenza, mantenere aperto lo spazio di Dio come spazio del Bene e del Senso.
Date queste premesse iniziali, il mio progetto intende sviluppare alcuni percorsi tematici differenti, sebbene essi risultino inanellati nel circolo di una stessa prospettiva, la quale ammette la possibilità di conoscere Dio a partire dall’esperienza del male, proprio in quanto fonte rivelativa di una natura umana strutturalmente aperta alla Trascendenza.
I percorsi che intendo delineare sono tre e coprono tre approcci diversi alla teodicea:
- la teodicea ireniana, che ha come esponente maggiore il filosofo John Hick;
- la teodicea processuale, che detiene tra i suoi sostenitori personalità quali Charles Hartshorne, David R. Griffin e John Cobb Jr.;
- la filosofia di Alberto Caracciolo, che intendo usare come sfondo teoretico-critico della mia riflessione.
Le prime due linee di pensiero rappresentano l’apporto che il mondo anglo-americano può fornire al problema del male, contributo che in Italia è quasi del tutto ignorato. Esse si presentano come due prospettive diverse che, partendo da una riflessione sul problema del male e sulla natura del mondo e dell’uomo, giungono a sviluppare concetti di Dio e ipotesi sulla sua conoscibilità molto differenti.
La teodicea ireniana sviluppa alcune riflessioni di Ireneo, apologista greco del II secolo, il quale sostiene che l’uomo, in questo mondo, deve affrontare un processo di graduale progressione verso la perfezione spirituale e morale, comprendente il male come ostacolo cui confrontarsi. Secondo Ireneo Dio ha creato gli uomini non come esseri perfetti, bensì come esseri immaturi, dotati di libertà e di una natura etica; esseri fatti ad “immagine”di Dio (imago dei), non a “somiglianza”di Dio (similitudo dei). Lo scopo dell’esistenza umana è la crescita morale e spirituale per divenire creature perfette, capaci di instaurare una relazione personale e libera con il divino. Seguendo Ireneo, Hick concepisce i mali nel mondo come strumenti che rendono possibile il nostro sviluppo spirituale; la sua teodicea è una teodicea della “formazione dell’anima”–soul-making theodicy –perché considera gli uomini creature finite ed imperfette, che possono crescere moralmente e spiritualmente tramite il confronto con sofferenze e difficoltà.
Nella teodicea della formazione dell’anima il male è la condizione di possibilità per la crescita personale e l’azione pratica, non è più semplicemente un elemento compatibile con il piano creativo divino, ma ne diviene un aspetto essenziale, senza il quale l’avvio di un percorso di crescita sarebbe impossibile. Infatti un mondo perfetto senza asprezze e difficoltà, un “paradiso” ideale, non ci permetterebbe di formarci come persone libere e responsabili; l’esercizio di virtù morali e spirituali richiede avversità da superare, senza le quali non si potrebbero accrescere né spiritualità né moralità. D’altra parte, se Dio intervenisse ogni volta che un uomo commette un azione buona o cattiva, cadremmo in un “meccanicismo” morale, dove ad ogni atto malvagio corrisponderebbe una punizione divina e ad ogni azione meritevole un premio, cosìche la libertà umana sarebbe distrutta.
Allo stesso modo, se non vi fossero calamità naturali e mali naturali (come la malattia), non potremmo superarli con l’esercizio della carità e dell’altruismo, rimanendo incapaci di sviluppare la nostra personalità.
La seconda linea di pensiero è quella che si definisce come “processuale” in quanto segue i principi della filosofia –detta appunto processuale –di A. N. Whitehead. In realtà essa non si limita a riprendere i motivi cardine della filosofia del processo, bensì li rielabora, proponendoli all’interno della sfera teologica e religiosa, con particolare attenzione al cristianesimo.
Secondo la teologia processuale l’universo è una grande società che ha come membro dominante Dio, il cui potere non è di tipo coercitivo, bensì persuasivo. Dio non determina unilateralmente nessuno stato di cose, ma si limita a coordinare, mantenere e stimolare l’ordine universale, organizzando gli esseri e le loro libere attività all’interno di una singola società complessa, ovvero il cosmo. La teologia processuale ammette l’esistenza di alcuni principi metafisici necessari, tra cui spicca il principio per cui nel mondo ogni ente attuale (dalla molecola all’uomo) possiede il duplice potere di auto-determinarsi e di influenzare altri enti. Non è Dio a donare tale potere alle creature, bensì esso viene presupposto come condizione logica-metafisica per l’esistenza di qualunque ente attuale; per esistere qualunque ente del mondo deve possedere la capacità intrinseca di auto-determinarsi. Ne consegue che la divinità processuale deve adeguarsi a suddetto principio: come Dio non può fare cerchi quadrati, perché logicamente impossibile, allo stesso modo non può esercitare potere coercitivo su nessuna creatura.
Dio non crea dal nulla, ma porta ordine a partire dal caos originario; lo scopo divino è quello di dirigere il mondo da uno stato caotico primigenio verso forme sempre più complesse di bellezza, intesa come unione di armonia e intensità. La nozione di bellezza racchiude in sé il principio fondamentale per cui ogni creatura, conformemente alle proprie capacità e al contesto in cui si trova, deve ricercare il massimo equilibrio possibile (armonia) tra forme di esperienza sempre più complesse, nuove e varie (intensità); più le esperienze godute dalle creature e le loro interrelazioni sono varie, complesse e armoniose, più si ha un alto livello di bellezza. Dio, perciò, cerca di evitare nel mondo sia la presenza della monotonia, di esperienze simili sempre ripetute, sia della superficialità, concepita come il godimento di esperienze inferiori rispetto alle capacità più ampie possedute dalla singola creatura, che potrebbe godere di tipologie di esperienza molto più intense e strutturate.
Per garantire la bellezza nell’universo Dio ha spinto la situazione di caos originario verso forme di attualità sempre nuove e diverse, fino a giungere al mondo come attualmente lo conosciamo. L’azione di Dio non è mai coercitiva, Egli non utilizza gli enti come meri fantocci o strumenti con cui costruire un cosmo armonico e ordinato, bensì la sua è un’opera di persuasione. Dio è massimamente rispettoso della libertà di ogni essere, egli non può infrangere la capacità di autodeterminarsi propria di ogni ente; perciò si limita a spingere, a stimolare ogni creatura verso quelle possibilità di attualizzazione migliori per essa in quel dato contesto. In altre parole Dio fornisce ogni essere di uno scopo ideale o iniziale, un impulso a realizzare l’opportunità migliore tra le sue realizzazioni possibili nella situazione concreta in cui si trova ad esistere, lasciando tutta la libertà alla creatura di definirsi come meglio crede; essa può darsi uno scopo soggettivo che coincide con quello iniziale oppure che diverge completamente.
Questa nozione di universo è caratterizzata dal dinamismo e dalla socialità, tratti ereditati dalla filosofia di Whitehead: il cosmo si presenta sempre in fieri, in perenne movimento verso forme di esperienza e di esistenza sempre più nuove e complesse; inoltre esso viene considerato come un’immensa società, in cui ogni membro è strettamente interrelato all’altro e dove Dio è visto come il socius supremo. Si tratta di un tipo di prospettiva panenteista, perché Dio viene considerato non come una realtà del tutto estranea e lontana rispetto al mondo, ma come ciò che lo sostiene e lo sospinge, pur rimanendo ulteriore. Il Dio processuale è un Dio che ama il mondo, che partecipa delle gioie e dei dolori del cosmo, è un Dio che patisce e gioisce con noi, è un Dio simpatetico.
Date queste premesse, la teologia del processo considera la possibilità del male come elemento necessario all’esistenza di un universo “sociale”, organizzato secondo i principi della bellezza e della libertà. Ad essere necessari non sono i mali concreti che si verificano nel mondo: essi rimangono assolutamente contingenti; invece è la possibilità della presenza in generale del male che è necessaria in un universo così concepito. Infatti, se esiste una molteplicità di creature libere in interazione reciproca, che Dio non può determinare unilateralmente né costringere, è inevitabile che queste possano entrare in conflitto, portando nel mondo la discordia e la disarmonia. La stessa possibilità del più grande bene, inteso dai teologi processuali come l’opportunità di godere di esperienze sempre più complesse, nuove e armoniose, richiede la possibilità di esperire anche i più atroci dolori; Dio potrebbe ridurre la nostra sensibilità alla sofferenza –per esempio fermando la natura a stadi evolutivi inferiori, evitando che emergano creature con un sistema nervoso e psichico come quello umano - ma così facendo ridurrebbe anche la possibilità di godere di alte forme di esperienza, come quella morale, estetica, religiosa. Compito di Dio è quello di cercare di sospingere il cosmo verso quelle forme più alte di cooperazione ed interazione armonica, ma la realizzazione di tali possibilità dipende dalla libertà della creatura e dalla sua volontà di rispondere all’invito divino.
È interessante sottolineare come questo approccio filosofico, nonostante sia ben poco seguito in Italia, presenti numerose affinità con il pensiero di Vito Mancuso. Nella sua opera Il Principio Passione[1]il noto teologo sviluppa un teologia naturale per molti aspetti vicina a quella processuale, soprattutto per l’idea di un Dio che plasma da un caos originario (anche se Mancuso ammette il principio della creatio ex nihilo, mentre i filosofi del processo la negano). Un approfondimento sulle divergenze e affinitàtra le due posizioni merita di essere opportunamente sviluppato, soprattutto per fornire un punto di riflessione su come viene interpretata la filosofia processuale in ambito italiano.
Il mio progetto intende vagliare criticamente la teodicea ireniana e la teodicea processuale, operando sia una valutazione circa la loro coerenza interna, sia un confronto filosofico tra le due, mantenendo come pietra di paragone la filosofia di Alberto Caracciolo. Gli ambiti oggetto di analisi ricoprono diverse dimensioni filosofiche e religiose:
- il concetto di Dio (in cosa e come il Dio della teologia processuale diverge da quello più “tradizionale” della teodicea ireniana? Quale percorso attuano per arrivare a conoscere Dio a partire dalla natura umana e del mondo?);
- il problema antropologico (come viene concepito l’uomo e la sua relazione con il divino nelle due posizioni?);
- il tema della libertà (che tipo di nozione di libertà umana e divina presentano queste filosofie?);
- il male (come viene considerato il problema del male nelle due prospettive? Che tipo di strategie attuano per risolvere il dilemma?);
- soteriologia ed escatologia (che tipo di visione soteriologica propongono suddette linee di pensiero? Quale concetto di salvezza utilizzano?).
Lo scopo è quello di introdurre questi approcci e di valutarne i limiti e le possibilità, fornendo un punto di vista dal quale ripensare il problema del male, non più solo nel suo lato “distruttivo”, bensì costruttivo, come momento di conoscenza e relazione con Dio, finalizzato a sostenere una risposta filosofica e pratica al problema.
Appuntamento seminariali
30 settembre 2015Riflessioni conclusive: la teologia processuale e il problema del male individuale
13 maggio 2015
Process theology. La teologia processuale
8 aprile 2015
La teodicea di Hick. Questioni e problemi
18 febbraio 2015
La teodicea nel pensiero di John Hick
*Sofia Vescovelli nasce a Genova il 29 giugno 1987 e studia con il prof. Gerardo Cunico presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo genovese. Nel 2009 si laurea in filosofia con una tesi dal titolo “Kant e la fede morale” (relatori: prof. Gerardo Cunico e prof. Roberto Celada Ballanti). Nel 2011 ottiene la laurea in Metodologie Filosofiche, proponendo una tesi dal titolo “Eredità kantiane nella filosofia della religione di John Hick” (relatori: prof. Gerardo Cunico e prof. Domenico Venturelli).
Nel 2013 ottiene l’abilitazione all’insegnamento nella Scuola Secondaria per filosofia e storia (classe A 037). Nello stesso anno inizia il dottorato di ricerca con borsa di studio presso l’Università di Genova con un progetto sulla teodicea di Hick e sulla teologia processuale. Da settembre 2014 studia presso il John Hick Centre for Philosopy of Religion, Birmingham University, collaborando con il prof. David Cheetham e il prof. Yujin Nagasawa.
Ha partecipato a diversi convegni e seminari come relatrice, e scritto numerosi articoli, tra cui Solidarietà tra le tradizioni religiose, in Etica e solidarietà, a cura di G. Cunico, Mimesis, Milano 2014, e Solidarity among religious traditions, in corso di pubblicazione.
Nel 2013 ottiene l’abilitazione all’insegnamento nella Scuola Secondaria per filosofia e storia (classe A 037). Nello stesso anno inizia il dottorato di ricerca con borsa di studio presso l’Università di Genova con un progetto sulla teodicea di Hick e sulla teologia processuale. Da settembre 2014 studia presso il John Hick Centre for Philosopy of Religion, Birmingham University, collaborando con il prof. David Cheetham e il prof. Yujin Nagasawa.
Ha partecipato a diversi convegni e seminari come relatrice, e scritto numerosi articoli, tra cui Solidarietà tra le tradizioni religiose, in Etica e solidarietà, a cura di G. Cunico, Mimesis, Milano 2014, e Solidarity among religious traditions, in corso di pubblicazione.
[1] Vito Mancuso, Il principio passione, Garzanti, Milano 2013.